Lo studio dell’interazione tra l’uomo ed i sistemi edilizi è cruciale per progettare e costruire spazi che siano compatibili con le esigenze di coloro che devono abitarli, assicurando confort ed escludendo ogni possibile rischio che possa compromettere la qualità di vita. Eppure quella che ancora oggi troppo spesso viene a mancare è una valutazione attenta e adeguata proprio dell’attività più frequente dell’uomo: il camminare in piano.

erminia_attaianese intervista_rischio_caduta_in_piano Abbiamo intervistato su questo tema la professoressa Erminia Attaianese, ricercatrice presso l’Università Federico II di Napoli e responsabile del LEAS – Laboratorio di Ergonomia Applicata e Sperimentale che in collaborazione con INAIL Direzione Campania ha recentemente approfondito il tema del rischio caduta in piano e della scivolosità dei pavimenti.

Ne è scaturito uno studio molto articolato ed approfondito che non si è limitato a fotografare l’entità del problema in Italia, ma ha fatto chiarezza sulle normative che lo regolamentano e si è spinto a identificare strumenti e misure di miglioramento.

Le cadute in piano sono la terza tra le cause di infortunio più diffuse, eppure l’impressione è che tale tipologia di rischio non venga sempre adeguatamente valutata dai progettisti e dagli stessi professionisti che si occupano di sicurezza.

Qual è la sua esperienza in proposito?

Non è esagerato dire che il rischio di caduta in piano sia oggi la ‘cenerentola dei rischi’, ritenuto del tutto secondario se non inesistente.
Sono davvero pochissimi coloro che lo considerano perché a monte è debole la valutazione fatta sul contesto fisico degli ambienti di vita e di lavoro.

Si tratta di un aspetto secondario per l’ingegnere, generalmente più concentrato sulla parte impiantistica di un edificio, ed è un aspetto trascurato dallo stesso architetto, il cui background formativo non associa la cultura della sicurezza alla cultura del progetto.

Qualcosa si sta facendo: la norma, per quanto non dica molto, c’è e anche l’orientamento della giurisprudenza sul tema è maturo. Ma è necessario far emergere una nuova e più forte sensibilità: per la sua priorità e rilevanza, il rischio caduta in piano deve diventare un argomento armonico e centrato del rischio architettonico.

Qual è l’entità del fenomeno degli infortuni da caduta e scivolamento in Italia?

Gli infortuni collegati a scivolamento e caduta sui luoghi di lavoro rappresentano a livello europeo il maggior numero di infortuni in tutti i settori lavorativi, compreso il lavoro d’ufficio, e sono motivo delle principali assenze dal lavoro superiori ai tre giorni specialmente nelle piccole e medie imprese.

In Italia le statistiche riflettono il trend e le cadute in piano rappresentano la terza causa di infortunio di tutti i comparti produttivi con circa il 15% di tutti gli infortuni di cui sono note le cause.

Le cadute in piano causano infortuni anche gravi nei lavoratori con una durata media di assenze di 38 giorni

durata superata soltanto da quelle dovute alle cadute dall’alto e dagli infortuni per impiglio/aggancio (rispettivamente, di 47 e 49 giorni).

La conseguente perdita di circa 2 milioni di giornate lavorative, in tutti i settori, rappresenta una delle prime cause di assenza dal lavoro con ovvie ricadute negative sul piano economico per l’intero sistema produttivo nazionale. Gli indennizzi corrisposti a seguito di cadute in piano ammontano a oltre 90 milioni di euro (costi diretti) e rappresentano una delle prime voci di spesa dell’INAIL . Poiché i costi indiretti possono essere considerati il triplo di quelli diretti, cioè circa 273 milioni di euro,

i costi totali degli infortuni da cadute in piano ammontano a circa 370 milioni di euro l’anno.

Affrontando il problema e riuscendo a ridurre questi infortuni almeno del 10%, obiettivo non particolarmente ambizioso, si otterrebbe un risparmio annuo di 9 milioni di euro.

Ci sono settori più esposti di altri?

Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, i dati evidenziano che

questa tipologia di rischio colpisce maggiormente il terziario  dove risulta essere la prima causa di infortunio.

Ciò si spiega, in parte, con il fatto che nelle grandi industrie vi è mediamente una maggiore consapevolezza del rischio da cui segue una superiore attenzione a prassi e comportamenti più sicuri e l’adozione di dispositivi di protezione individuale come scarpe antinfortunistiche.

Nel settore terziario la valutazione del rischio è invece assolutamente disattesa oppure viene fatta in modo banalmente empirico, il che non ha alcun valore e anzi accentua la probabilità di accadimento del problema.
Vi è poi in molti casi anche l’aggravante di edifici che non sono nati con una precisa destinazione d’uso.

rischio_caduta_in_piano_pavimento_scivoloso

Pensiamo a quante scuole, uffici pubblici, banche, attività commerciali si trovino ad avere superfici vetuste e dove sono assenti valutazioni relative all’adeguatezza delle pavimentazioni e dei percorsi rispetto all’utenza e alle attività che vi sono insediate.

Possiamo parlare di un rischio ‘normato’ per l’Italia? 

L’eventualità che gli ambienti possano indurre la caduta accidentale dei lavoratori, non è una condizione di pericolo nuova per la normativa italiana sulla sicurezza sul lavoro. I suoi principali riferimenti legislativi sono:

  • l’art. 7 comma 2° del Decreto del Presidente della Repubblica 303 del 1956, ripreso e modificato prima nell’art. 33 del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, e poi al paragrafo 1.3.2. del Decreto Legislativo n.81 del 2008, noto come Nuovo Testo Unico sulla Sicurezza nei Luoghi di lavoro, si prevede che i pavimenti presentino condizioni tali da rendere sicuro il movimento e il transito delle persone e dei mezzi, prescrivendo che questi siano fissi, stabili ed antisdrucciolevoli, esenti da protuberanze, cavità o piani inclinati pericolosi, oltread essere non ingombrati da materiali che possano ostacolare la normale circolazione.
  • la definizione di antrisdrucciolevole va ricercata nel Decreto Ministerile n.236 del 1989 riguardante le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche. Nel decreto si stabilisce che per pavimentazione antisdrucciolevole si debba intendere una pavimentazione realizzata con materiale il cui coefficiente di attrito (CoF), misurato secondo il metodo della British Ceramic Research Association Ltd. Rep. CEC. 6/81 (BCRA), sia superiore ad un valore minimo determinato.

 

In una interessante intervista per il portale Punto Sicuro, lei sostiene che i pavimenti scivolosi, così come altri fattori ambientali, rientrino nella categoria del “rischio architettonico”. Vuole spiegarci meglio questo concetto?

Il rischio architettonico concerne la probabilità che gli elementi tecnici e ambientali dei sistemi edilizi e degli spazi esterni ad essi connessi, nei quali si svolgono le attività di vita e di lavoro, possano determinare condizioni di pericolo per la salute e la sicurezza degli occupanti in ragione delle loro caratteristiche tecnico-costruttive e del loro stato di conservazione, manutenzione e utilizzo.

Le categorie del rischio architettonico così definito fanno riferimento alle prestazioni di sicurezza e benessere degli ambienti, nella convinzione che assicurare queste qualità negli edifici e degli spazi aperti, garantisca agli utilizzatori le condizioni per soddisfare le loro prerogative sia personali, cioè fisiche e mentali, che sociali e materiali, tutelando, in altre parole, la salute.

Vorrei ricordare che le condizioni di rischio architettonico possono dipendere da proprietà intrinseche dell’elemento tecnico di un certo ambiente (come è fatto), da alterazioni antropiche dell’elemento (come viene impiegato e/o modificato in modo improprio dall’uomo), da usura e degrado dell’elemento (come si presenta in conseguenza del suo invecchiamento, della mancata o errata esecuzione di attività manutentive ordinarie e straordinarie).

Una domanda solo apparentemente banale: come si valuta la scivolosità di una superficie? 

Innanzitutto occorre specificare che è più corretto parlare di valutazione del rischio caduta in piano e non di rischio scivolamento, perche l’evento dannoso può avvenire sia perché il piano di calpestio è troppo scivoloso, sia perché lo è troppo poco, tanto da indurre chi cammina ad inciampare.

Il coefficiente di attrito, così come definito, non è un valore assoluto, ma è un valore che dipende dalle caratteristiche dei due corpi che vengono a contatto durante lo spostamento e alle caratteristiche e condizioni in cui tale contatto avviene. L’attrito è, quindi, determinato da un fenomeno di interazione tra entità diverse, scarpa e pavimento, ed il suo valore risulta condizionato da fattori oggettivi (tecnici, ambientali e funzionali-spaziali non solo del piano di calpestio ma del percorso e dell’ambiente in generale) e soggettivi (fattori umani e comportamentali).

Si cade essenzialmente per un fatto fisico – cioè quando vi è una interazione non ottimale tra pianta del piede e superficie di calpestio – sulla configurazione del quale incidono le condizioni ambientali (ad esempio il fatto che un ambiente sia o meno adeguatamente illuminato) così come le condizioni psichiche della persona (è attenta oppure distratta). Una corretta valutazione non può trascurare di considerare le attività che si svolgono in quell’ambiente e quelle che chi cammina svolge.

Anche dopo avere messo in condizioni di sicurezza una superficie sdrucciolevole, quanto è importante programmare ed eseguire una verifica periodica delle condizioni di sicurezza?

La verifica periodica è fondamentale perché le prestazioni delle superfici di calpestio possono decadere velocemente, come anche le condizioni ambientali e organizzative dell’ambiente, modificando le condizioni di rischio riscontrate in precedenza.

Si riscontra però che tale pratica è assolutamente disattesa, perché si lega al rapporto estremamente critico tra manutenzione e sicurezza dei luoghi.

Tra i risultati del progetto MiSP vi è una chek-list di indicatori utili per stimare il rischio di una pavimentazione. Quali fattori considera?

Il progetto MiSP ha prodotto un protocollo per la misura strumentale del coefficiente di attrito e un protocollo per la valutazione non strumentale del rischio caduta in piano, basati sulla lettura delle seguenti categorie di fattori:

  • Fattori tecnici connessi alle caratteristiche della pavimentazione
  • Aspetti fisico-tecnici dell’ambiente
  • Elementi tecnici e arredi dello spazio architettonico
  • Layout dell’edificio
  • Compiti lavorativi e gestione degli spazi
  • Fattori umani dei fruitori

Abbiamo inoltre dato vita a una banca dati di misure di CoF di numerose pavimentazioni in opera, consultabile al link: www.leas.unina.it/ita/misp.html.
Segnalo che la banca dati è implementabile da chiunque sia in possesso di rilievi attendibili.

 

Per maggiori informazioni: info@regroupsrl.com